Parliamo di: Diario 1941/1943 di Etty Hilesum

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Il nazismo rappresenta una pagina nera della storia mondiale. Credo sia utile ci siano state lasciate delle testimonianze perché ci mettono di fronte a quel lato di disumanità che l’uomo ha mostrato all’umanità intera. Non ci sono spiegazioni concrete del perché le ideologie che si radicano nel cuore e poi passano ai gesti rendono in tali circostanze il mondo malato, privo di speranza. È importante sapere, studiare, convivere con questo passato perché se dentro di noi c’è un minimo di consapevolezza allora possiamo nel nostro piccolo agire e reagire perché non venga replicato, non si sbagli più. Credo che a volte ignoriamo e non ci rendiamo abbastanza conto che ad ogni decisione c’è una reazione e ad ogni reazione poi c’è un punto di non ritorno.

Il clima che si respira attualmente fa pensare che dai nostri errori non impariamo mai… ma per fortuna ci sono altrettante persone consapevoli che non lo permetteranno. Se crediamo che il mondo non ci riguarda, che chi viene da lontano non ci riguarda, che chi appartiene a una nazionalità, razza, orientamento sessuale diverso non ci riguarda allora dovremmo smettere di sognare di partire verso mete sconosciute, mangiare etnico, vestirci con marche non prodotte al di fuori dei nostri confini. Non sto divagando, nemmeno banalizzando ma purtroppo dobbiamo anche fare i conti con l’incoerenza che governa la maggior parte di noi anche in merito alle scelte che facciamo nel nostro piccolo, nel nostro quotidiano. Estrapolare ciò che ci fa più comodo del mondo, senza sentirsi cittadini del mondo, ponendo confini mentali (oltre che fisici) è riduttivo e impossibile nell’epoca dove grazie a internet parliamo e incontriamo tutto e tutti, compriamo ovunque, viaggiamo con la mente, conosciamo cosa accade in tempo reale a una velocità mai pensata prima. Siamo vittime inoltre delle nostre chiusure e la politica, chi ci governa le amplifica con un linguaggio e una gestualità non molto diversi dalle tecniche persuasive utilizzate in passato. Deve farci paura? Ovviamente sì, ovviamente nel lungo termine potrebbe portare a una visione dove non si riesce ad immaginare una vita diversa da questa.

Questo diario è infatti scomodo e scomoda è Etty, di origine ebraica, appartiene a una famiglia della borghesia intellettuale, con due lauree, una in giurisprudenza, l’altra in lingue Slave… che tale periodo di terrore lo vive con tutta se stessa perché dalla parte sbagliata dell’umanità ma nonostante tutto non smette mai di vedere il bene nel male che la sta attraversando. Per evitare di essere internata, nel 1942 va a lavorare come dattilografa in una delle sezioni del consiglio ebraico (nello stesso periodo Anna Frank iniziava a scrivere il suo diario, nascosta a poche miglia di distanza da lei).

Viene poi mandata nel campo di prigionia di Westerbork per essere infine caricata sul treno dei deportati, direzione Auschwitz dove muore il 30 novembre del 1943. Avrebbe potuto scappare, le avevano dato la possibilità di nascondersi, di proteggersi dall’orrore ma lei consapevolmente decide di non rifiutare il suo destino, di andargli incontro, accettarlo… sentiva dentro di sé che l’umanità intera la riguardava, che la disperazione che non risparmiava niente e nessuno la riguardava, il prossimo la riguardava. In questo suo agire filtra la luce, la speranza (che noi perdiamo continuamente anche per le cose più banali)… capace di salvarci dal buio che a volte ci governa, ci sovrasta.

La donna che non sapeva inginocchiarsi come si definisce lei, con le sue parole, ci insegna la necessità di non risparmiarsi, mettersi nei panni altrui nonostante i limiti, il niente, che non ci è dato capire tutto, compreso il male ma che l’esistenza è un autentico atto di abbandono verso l’ignoto ed è ciò che dà un senso alla nostra piccolezza, alla necessità di inquadrare, inquadrarci nella razionalità, negli schemi preconfezionati della mente, un po’ come meccanismo di difesa, un po’ per incapacità. L’importante è non arrendersi all’evidenza, è non rimanere fermi a guardare in prospettiva che gli altri decidano per noi, soprattutto se si tratta di scelte sbagliate, le sorti della maggioranza. Etty inoltre aveva una certa sensibilità religiosa che viene definita tutto meno che convenzionale. In Olanda la rivendicano come la quintessenza del cristianesimo, gli ebrei dell’ebraismo. Quando si rivolge a Dio però segue un cammino che non è dettato né da chiese né da sinagoghe, né da dogmi… dice infatti:

Quando prego, non prego mai per me stessa, prego sempre per gli altri, oppure dialogo in modo pazzo, infantile o serissimo con la parte più profonda di me, che per comodità io chiamo Dio.

Questo aspetto me la rende molto vicina come l’ho sentita vicina nella sua ricerca di senso e di equilibrio interiore. Una donna di una bellezza rara che ha testimoniato il suo amore totale e incondizionato per ciò che la circondava, per l’arte… il suo sogno era diventare scrittrice, raccontare l’orrore, dopo averlo superato. Purtroppo le cose sono andate diversamente ma ci ha lasciato delle parole preziose, lucide, che aiutano a riflettere, ci mostrano il suo sforzo sia di avere a cuore gli altri che il dover gestire una situazione che la sovrastava, le faceva paura ma doveva affrontare e che fino all’ultimo ha vissuto con tutta se stessa.

Un libro, un diario che vale assolutamente la pena di leggere.

Parliamo di: Cecità di José Saramago

Alcune storie hanno personaggi ma non hanno nomi. Hanno una città ma può essere benissimo una qualsiasi città del pianeta. Hanno un evento che stravolge e avvolge l’esistenza… In tal caso è un morbo che arriva e contagia tutti, tranne uno (o forse dovrei dire una):
All’improvviso succede che i loro occhi non vedono più i contorni definiti delle cose, degli altri, nemmeno le ombre. È un tipo di cecità diversa dalla solita, è sconosciuta perché qui non si spegne la luce definitivamente, non arriva il buio ma domina il bianco, come un candore che abbaglia, permanente, irrisolvibile e quello che stavi facendo all’improvviso non puoi farlo più.

Nessuno viene risparmiato (tranne uno, o una, chi lo sa) e allora ciò diventa una emergenza, una epidemia da affrontare subito, nel miglior modo possibile, senza ulteriori danni. Tale allarme scatena smarrimento, che sfocia poi in isolamento perché a quanto pare, forse è contagiosa, o forse no, ma nel dubbio è meglio correre ai ripari. È caos, degenero totale… come l’istinto di sopravvivenza imperante, che sfugge al controllo, alla paura per lasciare solo dopo spazio alla rassegnazione, al “probabilmente ce lo siamo meritato”, anche se “chissà cosa faremo, come finiremo adesso il resto che ci rimane da vivere”.

Quello che più conta, che più salta all’occhio però è la violenza, lo schifo che ne esce fuori, insomma la miseria umana, anche la nostra dove a un certo punto devi farci assolutamente i conti. Quello che prima era dato per scontato, adesso non lo è più. Ed è proprio vero che spesso la debolezza, la menomazione, il difetto non ci rende migliori, anzi, tira fuori il peggio di noi. Inoltre proprio perché così, pretendiamo di essere giustificati. Il punto è quando siamo tutti nella stessa situazione: Capiamo il problema, ma non lo risolviamo perché non sappiamo come risolverlo e perché prima pretendiamo di guarire noi e poi gli altri.

Alla fine, dentro di te, arriva un’unica e desolante domanda: siamo davvero a un punto di non ritorno? L’uomo però si tiene e si mantiene grazie alla speranza. Quella c’è e ci sarà per sempre. Li salverà? Saramago denuncia tutta la nostra “cecità esistenziale” più che fisica: Negare la realtà circostante, perseguire l’io inteso come se ognuno fosse il proprio Dio, non aver cura dell’altro, assecondare il proprio istinto animalesco piuttosto che controllarlo, a discapito di chi abbiamo accanto, intorno. Una rappresentazione che ha un che di bestiale e grottesco… Dove forse a un certo punto se ne vede la risoluzione, grazie a una presa di coscienza ma non è un ragionamento che vale per chiunque, purtroppo.

Non so voi ma in queste pagine ci ho visto tanto del mondo di oggi e ho avuto paura. La bellezza dei classici è che sono senza tempo, rimangono attuali a prescindere da quando sono stati scritti… Chissà se a leggerlo uno poi si spaventa e cambia rotta. Un po’ come quando ti dicono “studia la storia per non commettere gli stessi errori”. No?

#fralepagine: L’isola dell’abbandono di Chiara Gamberale

Stefano, Stefano, Stefano… è un nome amuleto il nome di chi amiamo? O non è piuttosto un nome tagliola […] perché intrappola e azzoppa la responsabilità di rispondere al nostro, di nome, con la nostra, di storia, invece di traslocare in un’altra persona – Persona Nostra che sei nei cieli – e rimettere a lei i nostri debiti, senza passare per i nostri debitori, inducendoci nella tentazione di amare qualcuno fino a dimenticarci di noi, perché lui, perché lei, così, ci liberi dal male? Quantomeno del nostro. Perché il suo male – quello di lui, quello di lei – comunque pesa meno, soprattutto nel momento in cui ci convinciamo che no, pesano uguali.

Si sentono tutti eroi tragici, ci sentiamo tutti protagonisti di un mito che smaniamo per raccontare, non vediamo l’ora di avvicinare il prossimo sconosciuto solo perché si fermi un attimo e ascolti, ma soprattutto permetta a noi di ascoltare la nostra voce ripetere ancora una volta che un giorno, tanti anni fa, poveri noi… Mi spiego? Lei aveva annuito, lui aveva ordinato un altro giro di ouzo. 
Ecco. Allora partiamo dal fatto, inconfutabile, che la vita è complicata…
{Pag.121}

Le parole, quante parole esistono, abaco cane mamma gatto papà zuzzerellone, ma quelle che ritagliamo per chi vorremmo sapesse davvero che cosa abbiamo dentro, e ci spiegasse anche che cosa non sappiamo noi, sono sempre sbagliate.
{Pag.173}

Arianna ama Stefano. Stefano ama Arianna, la sua “Occhi”, è così che la chiama… Durante una vacanza a Naxos però la abbandona, scappa con un’altra, per l’ennesima volta. Lei allora rimane là, conosce “Di” e ha una storia con lui. 
Ma all’improvviso una delle sue peggiori paure prende forma quindi si ritrova costretta a tornare a casa. La protagonista racconta gli ultimi 10 anni della sua vita. Lo fa perché adesso è madre, ha un figlio di cui prendersi cura… Quindi sente l’esigenza di dare una svolta a quello che sta vivendo, diventare una persona nuova, affrontarsi. Lo fa ritornando sull’isola, per guardare in faccia il perché il senso di abbandono che la accompagna da sempre la condiziona e condiziona chi le sta accanto.


Il romanzo si rifà al mito di Arianna che, proprio sull’isola di Naxos, viene piantata in asso dal suo Teseo. La leggenda narra che la donna per il troppo dolore sia diventata una stella. Un’altra versione invece narra che proprio lì incontra Dioniso, se ne innamora perdutamente diventando una divinità.

Chiara ci pone di fronte al fatto di quanto la parola “abbandono”, con le paure che porta con sé, spesso limita chi siamo… Come Arianna! Dipende sempre dalle accezioni che assume nel tempo, dalle esperienze che si fanno, dalle persone che si incontrano: può salvarti o ucciderti, può renderti schiava o libera, vittima o carnefice. A un certo punto, quando il dolore si fa troppo grande, l’unico desiderio è andare oltre a quello che non funziona, avere la capacità di lanciarsi nel vuoto, invece di provarlo e abbandonarsi.
Abbandonarsi, al contrario della paura dell’abbandono, è il risultato della più grande di tutte le felicità possibili, perché qualcuno con te resta sempre, qualcuno non ti lascerà mai sola, come Emanuele, come Damiano!

Buona lettura.

La felicità e altre piccole cose di assoluta importanza di Haim Shapira

felicità

State tutti lontani dai manuali sulla felicità. Ripeto, state tutti lontani dai manuali sulla felicità! Perché? Perché sono inutili ovviamente.

Haim Shapira esordisce raccontando di un sondaggio fatto dai suoi studenti e dove ha scoperto che nelle librerie i libri più venduti riguardano appunto la felicità e poi la cucina.

Io l’unica guida che ho avuto il coraggio di aprire riguardava il come smettere di fumare. Eh no, non ha funzionato. Eh sì, era noioso.

Allora per quale motivo vi parlo di questo libro?

Perché nel caso specifico non c’è nessuna pretesa di insegnarti qualcosa e mi sembra di per sé un ottimo motivo. Inoltre non ti svela il segreto per… Abbandonare l’infelicità per sempre. L’autore cita i pensieri di alcuni filofosi e riflette in merito all’incapacità dell’individuo di essere in un certo modo, spingendoti in conclusione a porti delle domande. Nonostante l’autoreferenzialità di alcune osservazioni ho amato (ma lo amo da sempre questo va premesso) il pensiero positivo di Winnie The Pooh che parte dal presupposto che “tutti siamo okey”. Agli occhi degli altri appare come l’orsetto più ingenuo del mondo ma invece è così proprio perché è felice di quello che è, di quello che ha. Di conseguenza non merita ed è inutile preoccuparsi di qualcosa preventivamente perché non sapremo mai se andrà bene o no e come reagiremo se non nel momento esatto in cui lo affrontiamo.

Nel mio caso la vita è decisamente diversa da quando nella difficoltà penso “perché deve andare per forza male?”. La felicità (o il semplice desiderarla) alla resa dei conti è soprattutto una questione di CONSAPEVOLEZZA.
Buona lettura!!!

Traduttore: T. Franzosi
Editore: Sperling & Kupfer
Collana: Pickwick
Anno edizione: 2015
Formato: Tascabile
In commercio dal: 8 settembre 2015
Pagine: 196 p., Brossura

EAN: 9788868362836

Recensione: La più amata di Teresa Ciabatti

“Chi è migliore? Colui che sopravvive al dolore, e io lo sono, io sono qui, sopravvissuta al buio del passato (era così buio?), al gorgo di un’infanzia infelice (ma poi: era così infelice? Sii onesta, Teresa Ciabatti…). Io sono una sopravvissuta, e voi no.”

Teresa Ciabatti, seconda finalista del premio Strega, edizione 2017 con “La più amata”, dietro a “Le otto montagne” di Paolo Cognetti. Li ho letti entrambi… Se per il vincitore nutro una stima incondizionata sin dagli esordi, per Teresa Ciabatti invece è stata solo curiosità. Forse per il titolo, forse per la copertina, forse per la trama, forse per l’articolo uscito dopo la manifestazione.

C’è una famiglia, la famiglia Ciabatti, che in un certo periodo, intorno agli anni 70/80, ha avuto un peso rilevante in una zona ben delimitata del nostro paese, ovvero Orbetello, in Toscana. Il capofamiglia è Lorenzo Ciabatti, chirurgo. Sin da giovane è votato a una carriera di successo infatti va in America a studiare medicina ma poi torna in Italia, laureato e pronto a conquistare il mondo. A un certo punto sposa Francesca Fabiani, dottoressa anestesista e di una estrazione sociale diversa dal marito: Ha studiato a Roma e grazie ai sacrifici della madre. Ce la fa perché è determinata. Francesca  la conosce perché si trasferisce e capita a lavorare nel suo stesso ospedale. Si innamorano e dopo il matrimonio la donna rimane incinta di due gemelli, eterozigoti, un maschio e una femmina: Gianni e Teresa. Teresa è la voce narrante che ripercorre le tappe della vita sua e dei genitori alla ricerca spasmodica e ossessiva di chi è veramente il padre: benefattore, dio della medicina, primario di reparto con una schiera di adepti pronti a esaudire ogni minimo desiderio o capriccio, ha contatti importanti e una scorta di lattine di coca nel frigo pronte ad essere bevute prima di entrare in sala operatoria. Ma lui non è solo questo, è molto di più. Tale aspetto viene fuori quando nella loro quotidianità si rompe qualcosa. A casa del professore si presenta un individuo armato che lo porta via, lo rapisce senza dare spiegazioni. Loro si nascondono nel bunker in attesa di un segnale, di un ritorno. Quindi, a un certo punto, persino la moglie desidera sapere cosa si nasconde dietro all’uomo, alla sua facciata di circostanza. Le domande si moltiplicano quando la figlia “la più amata” viene depredata da una ricchezza che brama con ogni forza e irruenza possibile. Non è più lo specchio riflesso del prestigio che ha goduto fino ad ora ma una qualunque, costretta a trasferirsi ai Parioli in un posto che non ha niente a che vedere con quello dove abitava prima.

La narrazione procede attraverso il meccanismo dei ricordi: Realtà e finzione si mescolano talmente tanto da non distinguersi. Non ci è dato sapere oltre alle parole impresse su carta. Un aspetto che si rafforza ancora di più grazie a uno stile talmente freddo e distaccato da non salvarsi nessuno, nemmeno lei che non capisce, non sa, colpevolizza lui, la situazione. E in effetti Teresa è un personaggio odioso perché è eccessiva, volubile, ha deliri di onnipotenza, si ribella alla povertà e la rifiuta. Vittima e carnefice degli eventi, non sa agire e comportarsi oltre se stessa. L’autrice inoltre definisce il suo ultimo lavoro “la storia della vita“. E se si ha la pretesa di farlo le cose in ballo sono molte. La più interessante è il mettersi a nudo a discapito delle conseguenze e degli stati d’animo di chi legge. Ciò che il lettore prova una volta chiuso il libro è contrastante e non lo governa: – Di fastidio totale e disprezzo per la sua insensatezza perché a volte si è quello che si fa, si è quello che si dice, protagonisti delle proprie decisioni. A volte si è le decisioni di chi ti mette al mondo prende per te, giuste o sbagliate che siano. La tua natura si forma anche grazie agli sbagli altrui (dei genitori in primis); infine di compassione perché ogni storia merita di essere raccontata, compresa, giustificata a prescindere, perché ognuno di noi si porta dentro dei dolori e delle esperienze che formano-sformano e che, a prescindere dalla propria incomprensione, non è possibile giudicare. Buona lettura.

La fragilità delle certezze di Raffaella Silvestri

Garzanti Editore

250 pagine

uscito il 23 febbraio 2017

Si sarebbe accorta Anna, in futuro, che c’è un’età oltre la quale si è adulti tutti allo stesso modo, perché ci sono solo due fasi della vita: quella in cui si è giovani e quella in cui si è adulti. Che in qualche modo significa non essere più giovani: aver abbandonato quella giovinezza che ci fa credere insieme che tutto sia possibile e che al contrario ogni ostacolo, ogni paura sia insormontabile.

Anna ha trent’anni. Dopo una breve esperienza come studentessa di teatro decide di iscriversi alla facoltà di economia alla Bocconi con la convinzione che ciò che investi e perdi con lo studio, poi deve rientrare, portare a un guadagno, a una carriera fruttuosa nel lungo termine. In parole molto semplici al successo. Con l’arte invece non ci si campa. Gli umanisti infatti si stanno solo spianando la strada verso la disoccupazione. Una riflessione abbastanza radicata, concreta, di genitori nati e cresciuti col niente e che col niente hanno fatto sacrifici per ottenere tutto. Al contrario della nostra generazione che nonostante abbia avuto tutto da subito, a costo zero, rimane senza futuro, ferita dalle avversità, dalle circostanze di una crisi scoppiata all’improvviso lasciandoti a mani vuote. L’esperienza insegna a chi c’è già passato a professare tale filosofia di pensiero, cioè a non permettere a nessuno, ai propri figli in primis di sbagliare, fallire, non riuscire a desiderare il desiderabile.
Anna inoltre ha una storia con il suo ex professore Valerio Bonfanti, uomo e regista rinomato nel suo ambiente. La relazione però è impari perché lui è troppo impegnato con la sua carriera in declino e in particolare con la sua crisi di mezza età per poter considerare anche la felicità di chi gli sta accanto.
Anna abusa di Azerax, l’alternativa moderna all’eroina, il suo paradiso artificiale, la serenità di cui ha bisogno per non lasciarsi sopraffare dall’ansia perenne. Non ha amici e nemmeno desidera averli, ad eccezione di Marcello, conosciuto al liceo. Viaggiano sullo stesso binario dello stesso treno da sempre. Valerio a un certo punto decide di lasciare l’Italia e continuare gli studi in America, in ingegneria. Quando torna fondano insieme una start up votata al successo. Alla società si unisce un terzo elemento, cioè Teo. Teo è di un’estrazione sociale alta, di famiglia facoltosa. Sono proprietari di un grande marchio di moda. Teo ha lavorato nel mondo dell’alta finanza per un po’. Ha un atteggiamento perennemente schivo, rilassato, dove sembra che la vita, come le preoccupazioni in generale non lo riguardino mai totalmente e la cui occupazione principale è creare soldi dai soldi. Un atteggiamento che è solo un meccanismo di difesa a un dolore che viene fuori quando l’azienda inizia ad accusare il primo problema reale, il primo tracollo finanziario serio, da risolvere con urgenza. In ballo c’è la credibilità, il futuro. Teo e Anna devono quindi affrontare oltre ai problemi esistenziali anche il problema della fuga di Matteo, sparito nel nulla e fare i conti con se stessi, con il passato e risolvere, riappacificarsi con il mondo, con i loro fantasmi. Dal nulla si riscoprono forti nell’essere deboli, più affini e uniti che mai.

A volte ci sono dei traumi che ti segnano, non li controlli, ti rendono diverso, senza ritorno. C’è chi li supera e c’è chi se li porta dietro all’infinito. Quello che succede o si prova dopo è un lento risalire o un lento sprofondare. Dipende da come guardi le cose. È una questione di prospettiva. Ci troviamo di fronte a una crisi generazionale e sociale, a una città cosmopolita votata e contrastata dal progresso come solo “Milano bella” sa essere fra tutte le altre, di tre esistenze che arrancano rassegnate e a fatica nel caos di una società che pretende di stare al passo coi tempi incurante dello stato d’animo e delle esperienze delle persone che la abitano. Fra passato e presente Raffaella Silvestri racconta cosa significa essere trentenni in un mondo poco accogliente come il nostro. Una trentenne come me che nonostante fatichi a trovare e a farsi spazio, uno spazio dove sentirsi a casa, dove fare casa, spera oltre, cerca di adattarsi al cambiamento, sogna, senza lasciarsi sopraffare dal vittimismo. Una storia che non mi rappresenta e che non sono riuscita a interiorizzare, a fare mia. I protagonisti sono, fino al limite della sopportazione, talmente tormentati dalla loro storia da non capire che esiste qualcosa che va al di fuori del loro corpo, dei loro pensieri. Rimangono immobili nelle convinzioni, frustrati nei desideri, smarriti nel grande e ingestibile caos come oggi, e in nessuna altra epoca, si può essere. L’autrice ambisce a dargli spessore fino a caricarli inutilmente e ad arrivare a un nulla di fatto. Nel mezzo c’è quel non detto che il lettore cerca d’interpretare senza riuscirci. Inconsistenza è la parola giusta per definirlo. Eppure continuo a credere che a prescindere dalla situazione, da come veniamo quotidianamente raccontati, percepiti siamo meno disorientati di come ci vogliono far apparire, meno sprovveduti, più votati al cambiamento di quel che crediamo e che per forza di cose siamo costretti ad affrontare, adesso.

Parliamo di: Florence Gordon di Brian Morton

Sonzogno editore

Florence Gordon ha settantacinque anni ma nonostante l’età si sente giovane dentro e fuori. Florence Gordon è forte, fiera, indipendente; vive da sola a Manhattan; non si tinge i capelli; non le interessa il botox; non si sbianca i denti. Florence Gordon ha deciso di scrivere un memoir con una connotazione femminista moderna. Lo vuole perché è vecchia, intellettuale e appunto femminista. Consapevole che avrebbe attirato svariate polemiche per la suddetta tematica va avanti imperterrita, determinata, ignara degli altri e di ciò che le sta intorno. La difficoltà principale nel realizzarlo consiste più che altro nel riportare in vita il passato. Il motore è l’indignazione per qualcosa che ha letto o sentito o visto che non abbandona mai la speranza, la convinzione sincera di far parte di una lotta che forse avrebbe portato la sorellanza e fratellanza universali a trionfare sulle forze del sessismo, dello sfruttamento, dell’avidità. Lo fa con una coerenza e una perseveranza tale da apparire agli occhi degli altri diversa, speciale e ricercata.

In primis da Janine, la suocera, dalla quale desidera ardentemente un consenso che non trova, proprio perché nessuno è in grado di coinvolgerla in sentimentalismi e attaccamenti inutili. Janine l’ha conosciuta leggendo la sua raccolta di saggi “Occasioni di eroismo nella vita quotidiana” durante un corso all’università. Sposata con Daniel da 23 anni. Considera New York una città travolgente dove “Sembravano tutti, in un modo tipicamente newyorchese, induriti dalle battaglie della vita e allo stesso tempo pieni di speranza“. Per questo appena se ne presenta l’occasione va a lavorare per Lev (il guru della fermezza, da 30 anni si occupa della stessa ricerca sull’autocontrollo) al Centro per lo studio della motivazione di psicologia della Columbia University, dove il suo compito principale è fare terapia con gli studenti del college. Insieme alla madre c’è Emily. La figlia ha solo 19 anni e nella grande mela ci viene per frequentare un corso estivo di letteratura alla Barnard. Daniel, l’unico uomo di casa, invece lavora all’unità di crisi. Una sorta di assistente sociale ma col distintivo. Rispetto ai genitori il desiderio di celebrità non è come un suono che non riesce a sentire ma come una malattia a cui è immune. Raggiunge moglie e figlia solo perché costretto da un esubero di ferie da sfruttare.

La svolta, che irrompe nei vari meccanismi della routine quotidiana, avviene dopo che Martha Nussbaum recensisce sul New York Times “Come si guarda una donna” di Florence portandola alla ribalta negli ambienti intellettuali che contano e a dover interagire con i vari membri della famiglia, Emily in particolare, che viene assunta come sua assistente tuttofare. Sembra che tutto cambi ma in realtà non cambia niente, tranne gli impegni che si moltiplicano. La percezione della vita per lei rimane invariata con una compostezza che a tratti sorprende.
Una storia ordinaria con una protagonista straordinaria. Janine, Emily, David, le sue amiche storiche che la adorano e le perdonano ogni cosa sono sfumature intorno alla sua fantastica figura che campeggia ingombrante e ben definita in ogni pagina suscitando fastidio e ammirazione senza controllo… Eppure, almeno una volta nella vita ognuna di noi ha desiderato l’indipendenza e l’audacia in un mondo troppo chiuso nelle proprie convinzioni. All’atto pratico poche sono riuscite nell’intento perché il femminismo autentico non è roba per chiunque, soprattutto se non si riesce a sopportare i giudizi della società e nonostante nel corso degli anni abbia assunto connotati diversi, le battaglie di adesso sono veri e propri atti di coraggio estremi e hanno a che fare con aspetti a cui molte (forse) non sanno rinunciare. Una lettura che ti interroga sul cosa vuol dire essere donna o apparire donna. Un aspetto che oggi non possiamo tralasciare. Florence, invece, ha le idee piuttosto chiare: Non è schiava di niente e nessuno. Ciò la rende libera. Buona lettura!

Parliamo di: L’amore paziente di Anne Tyler

Jeremy Pauling ha quasi 40 anni. Di professione è artista, ovvero assembla oggetti fra i più disparati, crea collage, costruisce sculture nella stanza all’ultimo piano. Non esce mai ed è vittima di una miriade di paure: della gente, del (rispondere al) telefono, del mondo esterno, di quello che c’è al di là del semaforo… Ha una mamma chioccia, talmente soffocante e protettiva che l’improvvisa morte da un lato lo lascia ancora di più in balia di se stesso, dall’altro lo libera. L’incapacità sul da farsi viene risolta dal testamento della donna: gli lascia in eredità la casa (adibita da tempo a pensione, con tutti i suoi inquilini strampalati dentro), sollevandolo così dall’obbligo di riflettere seriamente sul futuro. Fino a quando la quotidianità viene stravolta dall’arrivo di Mary (e della figlioletta) scappata da un marito che non vuole più e un amante indeciso al seguito. Jeremy se ne innamora all’istante ma solo dopo che ella viene scaricata e solo dopo elucubrazioni mentali infinite riesce a dichiararle il suo amore, sfociando poi all’atto pratico (e ufficioso) in un “matrimonio” e a mettere al mondo, uno dietro l’altro, cinque figli. A un certo punto però qualcosa fra i due si rompe: lui è sempre più schiavo della sua arte e del suo bisogno di silenzio in mezzo al caos famigliare; lei esasperata dalla mancanza di attenzioni scappa – con prole al seguito – e va a vivere in una baracca sgangherata e sporca, con la funzione di deposito barche.
Un romanzo scritto intorno alla metà degli anni 70, ambientato in America, a Baltimora, che risulta attuale per quel senso di incompletezza, smarrimento, indecisione che contraddistingue l’essere umano oggi come ieri. Le parole si reggono su un filo precario… Come nella vita, quando non accettiamo la mancanza di certezze che costruiamo a tavolino nella nostra mente dal primo momento che acquisiamo la capacità di ragionare. Jeremy, fratello di due sorelle più grandi, unico maschio, nasce e cresce debole perché troppo coccolato, troppo protetto dalle insidie del mondo, troppo tutto… tanto da apparire (gli occhi non riescono a immaginarlo in maniera diversa) un vero e proprio disadattato, un autistico sentimentale. Niente e nessuno gli appartiene realmente, nemmeno Mary, nemmeno i bambini. Fai fatica a stare dietro a un soggetto del genere. Inoltre è difficile inquadrarlo nella figura di artista maledetto. Eppure con i suoi lavori ci campa. Sono la sua unica pre-occupazione. Le opere, frutto di una fantasia surreale, sono esposte alla galleria di un museo, alla mercé di chi le ama e ovviamente non ha presenziato neanche una volta agli incontri autocelebrativi per le paure sopracitate che non gli fanno dire, non gli fanno fare. La sua natura è in ogni muscolo del suo corpo, arriva fin dentro alla pelle e culmina in un finale dal sapore amaro che turba il lettore tanto da non accettarlo. L’immagine che ne esce fuori nella totalità è agghiacciante. Il dubbio che ti viene infatti è se il protagonista è davvero un perdente.

In una società dove ci affanniamo tanto per arrivare in chissà quale luogo, dove non dobbiamo sprecare l’unica possibilità di cui disponiamo, dove sei costretto a capire per forza le cose che ti girano intorno per dare loro un significato…  Forse l’obiettivo della scrittrice è proprio ribaltare l’ovvio o mostrarci tale miseria, tale solitudine, tale diversità. Ti rendi conto di ciò solo quando perdi quello che per te è tutto e per quel tutto non si può più tornare indietro, ormai è troppo tardi.

Buona lettura

Parliamo di: L’uomo che piantava gli alberi di Jean Giono

Perché la personalità di un uomo riveli qualità veramente eccezionali, bisogna avere la fortuna di poter osservare la sua azione nel corso di lunghi anni. Se tale azione è priva di ogni egoismo, se l’idea che la dirige è di una generosità senza pari, se con assoluta certezza non ha mai ricercato alcuna ricompensa e per di più ha lasciato sul mondo tracce visibili, ci troviamo allora, senza rischio d’errore, di fronte a una personalità indimenticabile. 

Nelle lande nude e monotone della Provenza vi era un pastore solitario e tranquillo, di poche parole che, dopo aver perso moglie e figlio, provava piacere nel vivere lentamente con le proprie pecore e il proprio cane.

In passato aveva posseduto una fattoria in pianura. Il suo nome era Elzeard Bouffier. Aveva 55 anni. Piantava alberi da circa 3 anni… 100 mila per la precisione, ne erano spuntati 20 mila, (secondo gli imprevedibili disegni della Provvidenza) contava di perderne la metà, ne rimanevano quindi 10 mila.

Questo piccolo racconto (scritto nel 1953, pubblicato per la prima volta nel 1973. Di pura fantasia), che si fa leggere in un’ora, è narrato da un forestiero (lo stesso Jean Giono) capitato per caso sui suoi passi… Inizialmente non si rese conto della sua mirabile azione. Nel corso del tempo, ogni volta che tornava, la natura intorno a sé cambiava aspetto, rinasceva, grazie al gesto disinteressato di un uomo silenzioso, capace di percorrere Km su Km pur di compiere tale rituale, fino alla sua morte.

Anche il vento disperdeva certi semi. Con l’acqua erano riapparsi anche i salici, i giunchi, i prati, i giardini, i fiori e una certa ragione di vivere.

Un messaggio carico di speranza e bellezza che porta con sé un significato profondo, il vero senso dell’esistenza, dei motivi per il quale siamo qui… tanto da rendere realmente Bouffier “un atleta di Dio“, come lo definisce lo scrittore stesso. Una parabola sul rapporto uomo-natura che ci deve quindi far riflettere, porci domande che non possiamo rimandare sull’importanza della nostra responsabilità individuale e collettiva, su quanto le nostre scelte ci condizionano e condizionano l’ambiente circostante in meglio o peggio e dei risultati che siamo capaci di raggiungere se nella nostra vita agiamo con amore, rispetto, perseveranza, pazienza…

Parliamo di: L’uomo che metteva in ordine il mondo di Fredrick Backman

I vicini di casa spesso sono capaci di tirare fuori il peggio del peggio del peggio di noi stessi. Dopo l’ennesimo litigio – per chi deve pulire la scale o passa l’aspirapolvere durante le ore del cosiddetto silenzio [dalle 14:00 alle 16:00], il posto macchina improvvisato che sbarra il passaggio, la spazzatura lasciata all’ingresso da un incivile, il portone spalancato, le luci dell’androne accese troppo presto, gli schiamazzi notturni dei figli adolescenti – la prima cosa che pensiamo, mentre sbattiamo la porta è “la prossima… niente condominio, nessuno né sotto, né sopra, né accanto“. Costante che ci rende delle persone orribili anche se sai che non andrai da nessuna parte a meno che tu non vinca chissà quale gioco. Ma se aveste davanti al vostro pianerottolo uno come Ove diventerebbe una necessità inderogabile!

Ove ha 59 anni. Si alza ogni mattina alle 6 per ispezionare il quartiere. Ce l’ha con tutti, soprattutto con chi parcheggia l’auto dove non deve, chi sbaglia la differenziata, con la tizia che va a giro con quel piccolo cagnaccio malefico che più che cane sembra un topo, con il gatto spelacchiato che gli fa la posta davanti la porta, con quegli stupidi trentenni colletti bianchi che da un giorno all’altro l’hanno lasciato a casa dal lavoro [e badate bene che lui dal lavoro non è mai mancato nemmeno un giorno], con chi non ha una saab, con chi non è in grado di aggiustare le cose, con quell’imbranato che non sa usare il rimorchio e gli ha distrutto la cassetta delle lettere, con quella donna incinta [moglie del cretino appena sopracitato], dai lineamenti orientali, la pancia enorme e gli occhi grandi e profondi accanto che lo osserva con tanto di prole petulante al seguito e manda a monte i suoi – sacrosanti – piani di farla finita.

Avete capito bene… ha proprio intenzione di farla finita. Perché oltre al resto ce l’ha anche col mondo che gli ha strappato senza un senso LEI che era il suo colore nel suo essere privo di colore. Incontrata – da giovane – dopo aver staccato dal lavoro notturno sul treno… sorridente, bella, corteggiatissima, mentre lui così silenzioso e senza nessuno su cui contare. Due opposti che si attraggono, si scelgono, si sposano, provano ad avere un figlio, si stanno accanto sempre e comunque. Dopo la sua morte Ove continua  a negare l’evidenza. L’unica soluzione possibile per trovare una via d’uscita – a un maniaco del controllo come lui – è disdire l’abbonamento  al suo quotidiano, pagare le bollette e togliere di mezzo le questioni irrisolte. Prepararsi alla morte e raggiungerla. Ma i suoi sacrosanti piani per una buona volta vanno a monte perché nonostante sia uno scorbutico petulante rompiscatole ossessionato dall’ordine “un vicino amaro come una medicina” è qualcuno di cui non puoi fare a meno.

Una storia divertente, che inizialmente fatica a carburare ma poi esplode in un incessante susseguirsi di ricordi, dialoghi, insulti ritrovandoti a sorridere mentre vai avanti fino a lasciarti un vago senso di tristezza alla fine perché per quanto il tipo sia un piantagrane rimane sempre uno disposto a prodigarsi, a modo suo, perché – anche – sua moglie l’avrebbe fatto. Le persone spesso sono per come si mostrano, nascondono dolori che ignoriamo, indossano maschere per proteggersi, sono custodi di segreti che non conosceremo mai, ma altre ancora hanno il potere di lasciarti un enorme vuoto dentro per la loro assenza che diventa così ingombrante e si cela in tutte quelle fissazioni che se li per lì trovavi ridicole, poi ne senti la mancanza. Ecco, Ove fa parte di questi.

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